Il mistero del Rabbino Moishe

(Last Updated On: 2017-03-14)

 

A mio nonno, rimasto per sempre ad Auschwitz

 Da più di vent’anni ad Auschwitz non esce più il fumo fuligginoso nero bluastro dagli alti ed arcuati camini dei forni crematori. Tra le baracche, le torrette, le prigioni-bunker e le camere a gas crescono erba ed erbacce. Sono finite le esecuzioni, le morti per gas, le liquidazioni, le selezioni. Non arrivano più altri trasporti, le garitte sono vuote, nei magazzini non si accumulano più gli effetti personali dei prigionieri. Sul luogo della morte, della sofferenza e delle uccisioni sono scesi la solitudine e il ricordo. Pochi di coloro sopravvissuti a quest’inferno in questo luogo adesso silenzioso, sono rimasti in vita. I morti non possono fuggire dai lager, vi ricadono come cenere azzurrina, fino alla fine dei tempi.
L’oberkapò Teofil Dabrowsky si ricorda di molti di loro. Adesso, tornato dopo vent’anni nei luoghi della sua giovinezza, ha dichiarato: si ricorda dei sopravvissuti come di coloro che per colpa sua sono rimasti per sempre ad Auschwitz. Senza perdere la propria sicurezza percorse con lo sguardo in segno di sfida la misera piazzetta e si tolse d’impaccio ammiccando allo specchietto della macchina per lisciarsi i capelli. La bocca si piegò in un sorriso sprezzante.
– Macché, chi oserebbe ficcare il suo sporco muso nella mia macchina? Questi, rispetto a te, Teo, sono dei cialtroni! Per loro è un onore che tu sia venuto tra di loro. Nel lager sarebbero stati tutti ai tuoi piedi, si sarebbero inchinati davanti a te implorando e umiliandosi, davanti all’oberkapò Dabrowsky, temuto da tutti gli schifosi ebrei, come Obojski per esempio. Ma non è lui quello lì? O forse vedo male? E se fosse lui, Obojski, il complottatore? Il ragazzo modello, il prigioniero modello? Un nessuno! – Mentre pensava a queste cose sghignazzò concitato quindi, vedendo i due tipi davanti all’entrata ad arco della sinagoga, tossì in maniera convulsa.
– Dovrei andarci, sono pur sempre i miei genitori! – mormorò ma cambiò idea nello stesso istante. Il disgusto e la vergogna ebbero il sopravvento sull’improvvisa commozione.
– Ma che mi prende! Non è colpa loro avermi educato in questa maniera? Hanno meritatamente sofferto. Come sono finito in basso, per la miseria?!
Ignorando i suoi genitori, rivolse il suo sguardo indagatore verso le persone che bighellonavano sulla piazza. Riconobbe parecchi volti e rimase fortemente impressionato, il suo corpo venne percorso da un tremore causato dallo spavento.
– Sicuramente mi odiano – questo pensiero gli passò per la mente e se ne stupì.
Questo antipatico comportamento era invece completamente logico e fondato poiché allora, da questa città, moltissimi ebrei furono deportati nei campi di concentramento da dove molto pochi tornarono a casa. Qualcuno comunque ci riuscì e sapevano bene che Dabrowsky aveva trattato gli altri in maniera disumana.
Potevano averne sentito parlare soprattutto da Obojski, che per un bel po’ di tempo languì con lui nella stessa baracca. Raccontava come Dabrowsky li picchiasse con godimento, osservava con gioia il loro stremarsi e spiava tutto fiero come i prigionieri che trasportavano i cadaveri gettassero i corpi sulle barelle. Era in intimi rapporti con i lavoratori dei crematori per ottenere a buon prezzo gli oggetti di valore dei compagni torturati a morte.
Se trovava dei denti d’oro li strappava con una pinza requisita a questo scopo, anticipando il dentista che lavorava nell’obitorio del campo. In genere comandava su quei prigionieri che avevano soldi o qualsiasi tipo di beni. Non risparmiava nessuno, non faceva differenze, vessava e picchiava anche i suoi amici d’infanzia. Ora invece, vent’anni dopo, borioso e senza alcun cambiamento, è ritornato attendendo l’assoluzione.
Un uomo di un gruppetto si avvide dell’insolito visitatore e indicando col capo verso la macchina disse qualcosa ai suoi compagni che si voltarono a guardare. Dabrowsky li osservò imbarazzato e ritenne che sarebbe stato meglio spostarsi. Frenò con un gran stridio dietro la sinagoga, dove apparve all’improvviso Moishe Kras. Dabrowsky saltò fuori dalla macchina ghignando con fare arrogante ed esclamò con grida di giubilo.
– Rabbi!
Moishe si voltò sorpreso verso di lui squadrando l’estraneo dalla testa ai piedi e gli chiese.
– Ci conosciamo forse?
– Be’… per quel che riguarda… – disse l’estraneo a disagio, infastidito per la sua titubanza. – Allora, mi fa entrare? – chiese innervosito. Il rabbino lo osservò con occhi teneri e senza perdere la calma aggiunse piano:
– Torni un’altra volta.
– Ma cosa crede! – disse l’estraneo con uno scatto d’ira. – Vengo da lontano e comunque non ho tempo per fare avanti e indietro.
– Da lontano? – Dabrowsky capì al volo e sbiancò in volto respirando con affanno. – Mi sembra invece uno di qui – disse il rabbino spezzando il silenzio.
– Se sapesse perché sono venuto qui… se sapesse quante ne ho passate… quanto ho dovuto lottare… allora…
– Allora?
– Allora lei stesso mi chiederebbe di voler ascoltare tutto! – esclamò ad alta voce il kapò ritrovando la fiducia in sé.
– Ritorni domani – rispose compassato Moishe.
– Non posso – balbettò Teofil, poi con finta supplica proseguì – La prego, caro rabbi, mi ascolti! Abbia compassione!
Moishe si grattò pensieroso il mento, fissò a lungo l’uomo invadente. Teofil Dabrowsky non sopportava il suo sguardo, si guardò intorno solo apparentemente con indifferenza, come se stesse osservando il panorama o avesse visto qualcosa. Il rabbino Kras sapeva giudicare molto bene gli uomini. Aprì la porta posteriore della sinagoga e fece entrare l’ospite indesiderato. Teofil Dabrowsky avanzò dietro di lui a passi decisi e con fierezza, con un sorriso di soddisfazione sul volto, finché un’ondata gelida non travolse la sua anima fredda e crudele: il passato allegro e spensierato, l’infanzia.
– È tutto come prima! – gli scappò di bocca senza riflettere.
– Cosa ha detto? – chiese il rabbino senza voltarsi, Teofil si sentì sollevato.
– Niente, niente – affermò. Moishe si voltò all’improvviso e lo fissò negli occhi con uno sguardo vigoroso e interrogativo. Quindi disse piano, quasi come se lo dicesse a se stesso:
– Lei è già stato qui, se non sbaglio.
– Macché, cosa va blaterando! – lo redarguì l’ex kapò, ma comunque sentì che l’espressione del suo volto rivelava tutto il contrario e proseguì – Infatti, caro rabbi, non sono venuto qui per questo… cioè per venire di nuovo qui, ma perché dovevo venire qui… la prego, mi ascolti… vorrei che… lei sappia tutto, tutto… e allora… e allora…
– Che le prende? – Moishe fissò senza comprendere l’uomo tremante con la bocca con dei tic nervosi e col volto così bianco che sembrava un pazzo.
– Forse posso aiutarla.
– Lei? Macché! – disse Dabrowsky.
– Non la capisco. Poco fa…
– Ma certo, chi altri se no. Volevo dire questo ma lei mi ha interrotto. Mi ha interrotto di nuovo. A che diritto non lo so proprio.
– Guardi, non mi interessa, anzi più precisamente non ho tempo ora per lei, così… se vuol farmi perdere tempo, la prego di…
Non riuscì a terminare la frase perché l’estraneo non era più lì. Lo lasciò lì senza dire una parola e si diresse, come inseguito da qualcuno, verso l’Armadio sacro. Moishe lo seguì e penetrò nella penombra della sinagoga fermandosi al podio dove si legge la Torah. Teofil si accorse solo dopo qualche minuto della sua presenza e quando si avvide che si trovava proprio accanto al podio della Torah, si irrigidì. Nel giro di un secondo il crepuscolo si trasformò in luce accecante. La Bimah non era per nulla cambiata da allora, così il ricordo era forte e vivo. Le gioie del passato, alle quali aveva ripensato con piacere, avevano risvegliato nel suo cuore un dolore tormentante ed opprimente.
Durante l’infanzia, ancora prima della cerimonia del Bar Mitzvah, aveva spaventato così tanto il factotum che questo, per la paura, se l’era fatta addosso. Poi fuori, durante la cerimonia d’iniziazione aveva tirato un calcio ad uno dei dieci uomini che gli stavano intorno. Il rabbino si accorse di tutto ciò e quando vide che il ragazzo continuava a stuzzicare il vecchio factotum, profondamente adirato si avvicinò per dare uno schiaffo al moccioso che prendeva in giro, ma colpì invece per caso il factotum che si affaccendava nervoso intorno a lui. Il ragazzino continuò ovviamente a ridere.
– Non si era arrabbiato… – balbettò Teofil e scoppiò in singhiozzi.
– Lei è molto debole – affermò Moishe che si era avvicinato provando a sollevare l’uomo crollato a terra e in preda agli spasmi.
– Non mi tocchi! – gridò Dabrowsky scattando in piedi. – Non creda che lei c’entri qualcosa!
– Ognuno ha la sua croce, la sua è pesante – affermò a bassa voce il rabbino Kras.
– Croce? Croce. È tutta una menzogna… – poi tacque perché gli venne mente qualcosa di strano a proposito della croce. Pensava ai morti. Ad Auschwitz. Una scena prese vita nella sua mente. Accadde non molto dopo la visita di Himmler in primavera al campo. Nel lager non era ancora terminato l’appello quando Hans Bock, che lavorava nel krankenbau – ossia l’ospedale del campo – gridò dal corridoio.
Obojski e il prigioniero 290, i due trasportacadaveri, inghiottirono di corsa la loro razione di pane. Dabrowsky sapeva che se vengono chiamati durante l’appello, allora c’era stata un’esecuzione. Siccome insieme a loro erano andati altri trasportacadaveri, ne dedusse che doveva trattarsi d’una cosa seria. Si alzò e li seguì. Si stavano dirigendo verso la kiesgrube. Questa piccola cava di pietre si trovava oltre il filo spinato, davanti alla torretta. L’esecuzione era durata a lungo. I cadaveri erano stati gettati a due a due sulle barelle. Dabrowsky vide allora per la prima volta in vita sua tanti cadaveri tutti insieme. La paura della morte e il folle panico avevano deformato il loro volto, erano disgustosi e ripugnanti.
– Gesù non è morto – disse con voce che non ammetteva repliche.
– Come? – disse il rabbino non comprendendo.
– Gesù Cristo non era un vero morto.
– Non capisco.
– No? Certo che non capisce. Guardi, glielo spiego – disse sdegnosamente l’oberkapò. – Se osserva il volto di Gesù, cosa vede? Un volto bello, tranquillo, equilibrato, sul quale non c’è alcuna traccia della sofferenza tremenda ed indescrivibile provocata dai chiodi conficcati nella carne, né della lotta tormentosa ed impotente per la vita. Adesso capisce?
– No.
– Voi e tutti gli altri preti vi siete sempre prostrati davanti a lui e avete fissato la statua con dispiacere, devozione e commozione. Chi aveva immaginato in questo modo il Messia crocifisso era sicuramente un grande imbecille!
– Lei sta farneticando! Se non lo sa, un ebreo non si prostra mai innanzi alla statua di Cristo.
– Che cosa?! Io sto farneticando? Lei non ha mai visto un cadavere dal vivo!
– Cosa glielo fa credere? E se proprio lo vuole sapere…
– Se proprio, non voglio saperlo, non mi importa!
– Allora dunque…
– Aspetti! Guardi, io sto parlando di quei cadaveri che uno vede nel leichenhalle, sa, l’obitorio dei campi di concentramento.
– Che cosa vuole dirmi con questo? Mi scusi, ma non capisco…, né questo né il motivo della sua visita.
– Cosa ha capito! Macché! Lei non ci è mai stato. Non ha visto le esecuzioni alla kiesgrube! Non è stato nella leichenhalle! Non sa con che paura di morire e con quali malattie abbiamo trascorso i nostri giorni. Non ha vissuto nella baracca dove ogni giorno moriva qualcuno. Lei non è stato ad Auschwitz! – aggiungendo poi con incomprensibile fierezza – al contrario di me!
– Non me ne vanterei troppo al suo posto.
– Non me ne vanto, solo che…
– È buio, accendo le luci – disse il rabbino per cambiare discorso. Fece per uscire ma dopo due passi l’estraneo lo raggiunse e lo trasse indietro.
– La prego, non lo faccia! La prego.
– Ora dovrebbe andarsene, quindi…
– Andarmene! Ma ho appena cominciato!
– Che cosa? Cosa ha cominciato? – chiese Moishe leggermente impaurito.
– Non si impaurisca! Non si tratta di quello… lei è un brav’uomo, lo so bene! – lo blandì Teofil.
– Non giudichi troppo presto. Ci conosciamo da appena pochi minuti.
– Da pochi minuti? – disse Dabrowsky ridendo sguaiatamente.
– Non capisco cosa ci sia da ridere.
– Lo sa da quando la conosco? Non saprei dirglielo con esattezza, ma ricordo benissimo che lei era un giovane rabbino. Mi voleva dare uno schiaffo ma il factotum… eh, non importa!
– Sì che importa! Significa che allora ci conosciamo. Aspetti un attimo! È forse venuto per questo?
– No, assolutamente! Non per questo… o forse sì, proprio per questo!
– Mi dica, non era lei quel ragazzo?
– Certo che ero io! – disse sfacciatamente Dabrowsky con aria di sfida.
– Quel monello sfacciato e insolente che si sarebbe meritato lo schiaffo? A giudicare dalle sue maniere di adesso dovrebbe essere davvero lei!
Dabrowsky arrossì, poi con finta contrizione aggiunse: – Non se la prenda, caro rebe, se l’avevo offesa… davvero non volevo e…
– Lasci pure!
– Che cosa?!
– La smetta di dire menzogne, Teofil Dabrowsky!
– Come ha detto? – chiese illividendo l’uomo ormai smascherato.
– Teofil Dabrowsky! – esclamò il rabbino e la sua voce si sparse risuonando nel vuoto.
– Sono perduto… lo sono già da tanto… ma soltanto adesso mi sento davvero perduto.
– Sì, davvero. Da quando?
– Dobbiamo parlare! Ora io… io vengo a raccontarle una cosa. Solo a lei! capisce?
– No e non urli, per favore!
– Cerchi di capire. Lei deve sapere!
– Io? Perché proprio io?
– Perché lei è l’unico al quale… al quale posso raccontare questa cosa… è una cosa che… è difficile da dire… molto difficile… comunque io devo… mi comprenda… mi comprenda… la mia coscienza mi uccide se…
– La sua coscienza? – chiese Moishe, poi egli stesso si stupì del suo tono ruvido.
Dabrowsky non fece caso al commento e proseguì a ruota libera, in maniera confusa e incoerente, ma più si infervorava nel discorso e più si sentiva sicuro di sé. Si scaldò a tal misura che il rabbino si stancò e gli chiese di andare al sodo.
– Queste sono tutte cose importanti! Come può pensare di fermarmi? Me…
– L’intrepido kapò del lager? – chiese Moishe con lo stesso ruvido tono di prima, di cui però ora non se ne pentì. Anche suo fratello era stato ucciso da una bestia simile.
– Le dirò di che si tratta e vedrà che le interesserà! – esclamò innervosito Dabrowsky.
Al rabbino Moishe Kras venne in mente una conclusione ma la respinse subito perché ciò a cui aveva pensato sembrava praticamente impossibile.
– Le prometto che l’ascolterò. Si sbrighi però.
– Mi darà l’assoluzione? Mi prometta che lo farà.
– Forse… non lo so ancora…
– Deve promettermelo, altrimenti non parlo.
– Va bene allora.
– A quei tempi nei lager i kapò commettevano tante crudeltà, erano i padroni della vita e della morte, si concedevano di tutto, anzi glielo permettevano pure per rafforzare così il loro posto. Così picchiavano in continuazione i loro compagni, che non erano più loro compagni, ma… beh, lasciamo stare, l’essenziale era che erano cattivi, rubavano, torturavano e a volte uccidevano… non perdonavano.
– Perché mi dice queste cose? Le sanno tutti. Che, forse anche lei…?
– Sì, proprio come dice lei, dannazione! – gridò l’ex kapò senza un minimo di disagio.
Moishe lo guardò inorridito. Dabrowsky sfruttò quest’attimo di vantaggio.
– Beh, che c’è? Forse niente niente…?
– La prego, continui! – dichiarò impaziente Moishe Kras.
– Quando mi trascinarono al campo ero considerato una brava persona e amavo davvero gli uomini. Ma il potere, come tante altre persone sinora in tutta la storia, mi ha stregato e stordito. Neanche lei può negarlo.
– Non lo nego.
– Il potere mi ha dato alla testa e ha eliminato la parte buona che c’era in me. La mia coscienza cominciò a svanire, a perdersi, i sentimenti si indebolirono, persi la fede – disse quasi senza pensarci ma si corresse immediatamente – ovviamente solo per poco, anzi non l’ho praticamente persa… solo che…
– Solo che?
– Durò per pochissimo tempo e intanto pensavo e mi arrovellavo su come poter sopravvivere a quell’inferno e a quella depravazione che mi circondava… come poter mangiare tanto quanto basta per non morire di fame… ed era una cosa difficilissima farlo nel lager…solo rubando… ho provato a rubare, mi creda… ai tedeschi… Ma era impossibile, lo sa anche lei… quindi…
– Vada al sodo, per favore – disse Moishe.
Dabrowsky si accorse che gli stavano tremando le dita appoggiate al podio. Trovato il coraggio, iniziò a dire il motivo della sua visita.
– Un giorno finii alla divisione penale. Strafkompanie, era chiamata così… e… e… suo fratello era lì… come sicuramente avrà saputo.
– Sta dicendo di mio fratello? – un brivido freddo percorse Kras.
– È stato informato di queste cose? Non è così? – chiese incuriosito Teofil.
– Mio fratello…
– Era pelle e ossa, era debolissimo, poveretto… mi ha fatto tanta pena, era una brava persona… proprio come lei… forse per questo volevo aiutarlo.
Moishe Kras lo guardò incredulo, col volto teso e pensieroso.
– Non poteva lavorare, non aveva la forza neanche di camminare. Un soldato delle SS di scorta sarebbe voluto tornare a casa già da tempo e suo fratello era capitato proprio a pennello. Lo acchiappò e lo mandò a prendere l’acqua… Se non fossi intervenuto, il soldato avrebbe ottenuto tre giorni di licenza per l’omicidio di suo fratello… Può immaginare che grande responsabilità mi assunsi per suo fratello… ma gli volevo bene… e lo feci!
– Non capisco – disse Moishe a voce molto bassa.
– Se lascio andare suo fratello al pozzo l’SS gli avrebbe sparato subito, appena superata la linea di confine. Tentativo di fuga da parte di suo fratello, ferie premio al soldato per aver ucciso un prigioniero durante la fuga.
– E lei l’ha salvato? – chiese il rabbino. Dabrowsky vide la gratitudine nei suoi occhi.
– Sì! Suo fratello, non sospettando nulla, si era già messo in cammino quando gli gridai: Fermo! Il tedesco naturalmente mi guardò senza capire. Gli spiegai che il prigioniero era ancora abile al lavoro. E minacciai il soldato. – disse mentendo Teofil Dabrowsky. – „Ja’’ – rispose l’SS al che io annuii. Richiamai suo fratello ed iniziai a picchiarlo piano…
– Picchiarlo?
– Solo così potevo costringerlo a lavorare… Non tema, facevo attenzione. Ho imparato anche questo: i tedeschi vedevano che lo picchiavo di santa ragione, ma in realtà lo sfioravo appena.
– Mio fratello comunque è morto. Nel revier, ho sentito dire… è vero questo?
– E questo chi gliel’ha detto a lei? – chiese Dabrowski con un moto di stizza.
– Obojski mi ha raccontato che è morto per un attacco cardiaco nel revier, in infermeria.
– Macché! Ma che ne sa Obojski! Non è morto proprio per niente nel revier! E neanche di herzschlag! Glielo posso assicurare! Che idiota quell’Obojski! – esclamò Dabrowsky con disprezzo e presunzione. – Nel totenbuch, il certificato di morte, c’è scritto ovviamente questo. Io stesso scrissi la notifica di morte – mentì.
– E cosa ci scrisse? – chiese Kras adirato per l’insolenza di Dabrowsky.
– Naturalmente herzschlag!
– Cioè attacco cardiaco. Allora di che cosa è morto veramente?
Dabrowsky tacque e guardò a terra. A volte lanciava un’occhiata al rabbino. Quando si incrociarono gli sguardi, Teofil sbiancò provando terrore e rabbia. Moishe si irritò sempre di più, era teso. Entrambi attendevano che l’altro parlasse per primo. Il silenzio era diventato opprimente. Gli antichi e freddi muri della sinagoga, in alcuni punti un po’ scrostati, incrementavano la tensione. Teofil Dabrowsky si guardò intorno sperando di vedere qualcuno. Nella sinagoga però, a parte loro, non c’era anima viva.
– Devo andar via – balbettò con un filo di voce.
– Non vuole rispondere? Allora perché è venuto?
– È una cosa triste, lei non può capire, figuriamoci comprendere!
– Mi lasci stare, signor kapò!
– Questo no! Non ho fatto un viaggio così lungo e poi alla fine lei non mi ascolta. Cosa crede?!
– Ho paura di non capirla ma in verità forse non voglio neanche.
– Non le interessa suo fratello?
– Lei non sa niente di lui. Immagino voglia dei soldi…
– Come può essere così abietto?! Soldi! Ce n’ho abbastanza!
– Ah, già! Dimenticavo, lei era kapò…
– Questo è troppo!
– Finiamola qui! Se ne vada! Torni a casa, sarà meglio per tutti.
– Sa una cosa? Mentre esco le dico che suo fratello non è ritornato con noi al campo!
– Cosa intende dire?
– Non vivo – sussurrò Dabrowsky.
Per un istante il rabbino rimase sconcertato, lo fissò senza capire, con la fronte corrugata e scintille di odio negli occhi. Dabrowsky si accorse di questo cambiamento e seppe che la fine era vicina.
– Teofil! Non vuol mica dirmi che…, che… – chiese con timore Kras.
– Sì – disse il kapò con voce insolita. Incrociò le gambe come spesso aveva fatto a suo tempo nel campo di concentramento di Auschwitz quando parlava con gli sporchi ebrei. Tirò fuori un portasigarette d’oro, prese una sigaretta, se la mise in bocca e solo allora si rese conto di dove fosse quando si guardò intorno non trovando i fiammiferi. Ormai però era tardi.
– Chiedo scusa – balbettò guardando la scatolina che teneva in mano. Moishe Kras seguì il suo sguardo, riconobbe il portasigarette e in quell’istante tutto divenne chiaro.
– Rabbi! Cosa le prende? Ehi, rebe Moishe, che succede?
Moishe Kras osservò in silenzio e con strana tranquillità il suo nemico. I suoi occhi lanciavano fiamme, ma non perse il suo sangue freddo. Afferrò con forza il candelabro e lo tirò verso di sé per qualche secondo… Osservò per un momento la sua vittima rimasta impietrita come una statua innanzi a lui senza riuscire a pensare di fuggire. O forse non lo voleva neanche. Il pensiero di uccidere percorse la mente del rabbino Kras. E in quel momento crudele e sanguinario Moishe, per effetto d’un condizionamento che irruppe all’improvviso, ricollocò il candelabro dov’era, come se non l’avesse mai preso. Dabrowsky schiumava dalla bocca, il sudore lo ricoprì in tutto il corpo e il volto deformato era piagato dalle lacrime.
– Chiedo soddisfazione! Mi assolva! – esclamò con voce isterica.
Moishe Kras squadrò quell’uomo ignobile. Stettero in silenzio per un po’.
– La perdono.
– Perché? – esclamò Dabrowsky fuori di sé con un urlo di dolore.
– Perché lei, Dabrowsky, è rimasto comunque un essere umano.

Cosa è successo dopo? Non lo sapremo mai! Il rabbino Moishe Kras da allora sparì. Teofil Dabrowsky, oberkapò di Auschwitz, è morto da vent’anni.